La Graciosa perché è piccola, perché è l'ultima arrivata, perché quando fu scoperta la chiamarono La Gracieuse per i suoi colori, il giallo ocra della Montaña Amarilla, il blu cobalto dell'oceano che digrada nel verde smeraldo delle insenature risplendenti, il bianco abbacinante delle piste di sabbia dorata che s'inerpicano fino alle pendici della Montaña Bermeja, il vulcano dalle mille sfumature striate di rosso vermiglio. È per tutto questo che l'hanno chiamata La Graciosa. Ma per questa isola piccina, chinija come l'arcipelago cui appartiene, non è sufficiente una così modesta nomenclatura, non basterebbe neanche un superlativo. Per definirla non si può non ricorrere a espressioni esagerate, traboccanti, ridondanti. La Graciosa non è graziosa. La Graciosa è bellissima, magnifica, stupefacente, folgorante. La Graciosa è iperbolica.
Sul ferry della Líneas Romero, che dal porto di Órzola nel nord di Lanzarote raggiunge La Graciosa, sono sola. Quel pomeriggio di fine luglio alle cinque di pomeriggio il traghetto imbocca El Río, così lo chiamano quel braccio di mare che separa le due isole. Lo scafo ondeggia vistosamente, sembra ubriaco, ebbro del vento sferzante e della salsedine pungente dell'Oceano Atlantico. L'ottava isola dell'Arcipelago delle Canarie appare dopo appena venti minuti di navigazione in tutta la sua interezza, terra brulla, desertica, selvaggia. Nera come la lava dei coni vulcanici che la sovrastano, bianca come le basse casette di pietra che appaiono per contrasto a segnalare l'attracco nel borgo di pescatori di Caleta de Sebo. È un labirinto di viuzze, piste polverose. Solchi tracciati nella sabbia, sembrano geoglifi, linee di Nazca che la natura incontaminata e intonsa disegna sulle stradine del piccolo centro abitato. Sembra di essere sbarcati in un piccolo villaggio del Messico dei Maya, sembra di essere in Brasile, a Bahia. La chiesetta bianca con i festoni appesi che svettano al vento, anziani affacciati alle persiane verdi delle abitazioni e signore sedute davanti alle case, tutti indistintamente con il sombrero graciosero sul capo attaccato sotto il mento con un nastrino bianco. L'unica differenza è che gli uomini lo indossano ponendo il fiocco a sinistra e le donne a destra della testa. Un altro mondo, un'atmosfera dolce, rilassata, gentile, un luogo di altri tempi.
Bisogna visitarla questa piccola isola, bisogna scoprirla questa piccola gemma canaria. Posso noleggiare una bicicletta o percorrerla in fuoristrada concordando orari di andata e ritorno con i tassisti che aspettano al porto. Ma la voglio esplorare, voglio camminare per chilometri a piedi arrampicandomi sulle dune di sabbia, raggiungendo le vette dei vulcani, caracollando per le ripide e scivolose discese fino a rotolare verso il mare. Seguo i cartelli che segnalano la direzione e il primo giorno mi avventuro nella traversata che mi porta a la Playa de La Concha, nel versante Nord. Il colpo d'occhio è strabiliante. L'infinita distesa di sabbia dorata circondata dall'imponente Montaña Clara si specchia nel blu profondo dell'oceano aperto, che s'infrange impetuoso sulla battigia. Una forza della natura, in balìa delle correnti più insidiose. Ti stendi sulla rena rilucente a riposarti, dopo la fatica del viandante che, lottando contro tutti i fenomeni atmosferici più indomiti, ha raggiunto una delle spiagge più belle del mondo. E resti lì, in contemplazione. Il giorno successivo mi dirigo ad ovest, m'inerpico su ripide scarpate affondando i piedi in montagne di sabbia. Sabbie mobili, che ti risucchiano fino al ginocchio complice quel vento dispettoso e indomabile che ti soffia contro. La bassa marea disegna paludi di acqua cristallina che si ritira, lasciando allo scoperto le zone di nidificazione delle berte maggiori e degli altri uccelli endemici, tutelati qui dalla istituzione del Parco dichiarato Zona di Protezione Speciale della Riserva Marina dell'Arcipelago Chinijo. Playa de La Francesa racchiude una insenatura del mare dalle acque trasparenti, calme. Puoi nuotarci dentro per ore, sono accondiscendenti, sembrano accompagnarti nelle movenze del tuo corpo che le accarezza. Te lo avvolgi tutto intorno, fresco e corroborante, questo mare della trasparenza del cristallo che ti dona il piacere assoluto. Devo immergermi, devo andare a vedere cosa c'è sotto, ma prima devo scovare l'ultimo tesoro nascosto. Mi perdo, chiedo in giro, con la solita gentile timidezza gli abitanti del luogo mi indicano la via. Salgo su una duna, arrivata in cima mi affaccio e guardo giù. Una folgorazione. Sono folgorata sulla via di Damasco, come San Paolo. Sotto di me, incastonata tra il giallo oro della Montaña Amarilla, il verde smeraldo del mare e il bianco dorato della spiaggia, la Playa de la Cocina appare come una caldera vulcanica, un cratere preistorico. Il giardino dell'Eden come il Ngorongoro. Il fondale è ricco di pesci, la biodiversità dell'isola de La Graciosa, la riserva marina più grande d'Europa, riserva sorprese, specie rare, uniche che vivono solo qui. Indosso la maschera, tra le rocce scorgo sogliole pavonine che si nascondono, barracuda a mezz'acqua, pesci pappagallo dall'inconfondibile colore rosso vivo. Riprendo la via del ritorno quando il sole scende dietro la vetta della montagna. Mi dirigo verso casa. Domani si va sott'acqua.
Al Buceo La Graciosa c'è movimento, c'è euforia. Si parla concitatamente mentre ci si prepara per l'immersione. Nessuno lo dice, ma tutti lo sperano, sono venuti qui apposta per vederlo. Io non mi contengo, esprimo esplicitamente il mio desiderio, lo chiedo, lo imploro. Incrociamo le dita, invochiamo la suerte. Si parte in gommone mentre da un peschereccio appena rientrato lì al porto i pescatori invitano gli acquirenti a comprare le sardine fresche. Il primo sito non tradisce le aspettative, si chiama Roncadores e, appena scesi, banchi enormi di roncadores (ombrine) e di herreras (marmore) attraversano l'acqua veleggiando in giri concentrici. Un chucho negro (pastinaca nera) si nasconde sotto una roccia, mi abbasso cautamente per fotografarlo, ma devo difendermi dagli attacchi continui di un pesce balestra che mi segue e cerca di mordere lo scafandro della macchina fotografica. Evidentemente sono entrata inconsapevolmente nella sua sfera d'influenza e sta difendendo il suo territorio. Il giorno seguente, a Veril del Risco, pattugliamo per ben sessantaquattro minuti il fondale arenoso alla ricerca. Mimetizzate sotto la sabbia, le tembladeras (torpedini marmorate) sporgono solo con gli occhi a scrutare i dintorni in attesa della preda. Sono sette, tutte insieme, una sopra l'altra, affollate. Meros (cernie), parghi, viejas (pesci pappagallo), langoste canarie (cicale di mare), tutto il repertorio dei pesci autoctoni si presenta all'appello. Ma lui no. Ultimo giorno d'immersione. Si parte per il sito chiamato Juveniles 2, si pinneggia a pochi centimetri dal fondo, prove di assetto, ci si muove con calma, leggiadria, senza toccare, senza alzare polvere. Con gli occhi incollati alla sabbia. Vedo una luce intermittente, la guida dell'altro gruppo sta segnalando con la torcia. Capisco subito, perdo la calma, perdo l'assetto, perdo la ragione, mi fiondo di corsa, lui mi fa segno di stare tranquilla. Muove la mano su una distesa desolante di sabbia dove non c'è niente. Muove la mano e piano piano compare una pinna, poi una coda. Sono sconvolta. Ma come ha fatto a vederlo? Momento di sospensione. La guida si ritrae, torna indietro. E no, non puoi lasciarmi così! Va bene che i pesci non vanno disturbati, ma scopriamo per favore un altro indizio, come in un puzzle dove bisogna ricomporre un soggetto aggiungendo un pezzettino alla volta. M'impunto, mi piazzo sopra l'oggetto misterioso, l'oggetto dei miei desideri. La guida, rassegnata, torna, dà una bracciata vigorosa. E lui esce allo scoperto. L'Angelote, lo squalo angelo, Squatina Squatina, metà squalo, metà razza, specie endemica, specie a rischio d'estinzione, gioiello delle Canarie dove ha il suo ultimo luogo di riproduzione ed è protetto da un Progetto di Conservazione, è lì, adagiato sotto i miei occhi. Si scrolla la sabbia di dosso e comincia a nuotare, muovendo la coda con un elegante e sinuoso movimento, da un alto all'altro. La usa come un timone, lentamente, ancheggia, sculetta quasi, come a sedurre chi gli sta dietro. E io lo seguo, immemore dei consigli, dei divieti, delle cautele, lo seguo e lo inseguo, lo fotografo, lo riprendo, lo immortalo fino a quando, salito su un costone roccioso del fondale, punta verso l'alto e scompare illuminato dalla luce del sole che penetra negli abissi marini.
Mi stendo al sole nella luminosa Playa el Salado, riparata da ciuffi di piante del deserto, i cactus, le pitas, l'aloe vera da cui si estrae il gel della bellezza. Scivolo nell'acqua turbinosa della Playa Caletilla mentre un airone cinerino osserva vigile ogni movimento sospetto per poi spiccare il volo tra gli spruzzi nebulosi delle onde che s'infrangono sulle rocce colonizzate dagli uccelli delle tempeste. Ed è proprio una tempesta di emozione quella che mi travolge al momento della partenza. Questa isola piccina, modesta, riservata, traboccante di meraviglie, ti lascia dentro un sentimento appassionato. Perché La Graciosa non è graziosa. La Graciosa è bellissima, magnifica, stupefacente, folgorante. La Graciosa l'Iperbolica. |