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Materiali dall'Africa - Sudan


Aprile 2016
Sudan - Il ritorno

Chiariamoci subito: tornare in un luogo già visto anni dopo, in questo caso otto, non è mai una mia aspirazione. Troppe volte la delusione è in agguato. Inevitabile è il confronto con la volta precedente, c'è il rischio di inquinare un ricordo, di rovinare la memoria di qualcosa che era e non è più. E soprattutto di come era e di come è diventato.
A complicare le cose, questo ritorno in Sudan era apparso complicato fin dall'inizio. Rimandato un'infinità di volte per motivi vari, il mio gruppo di amici subacquei aveva finalmente fissato la data per la fine di marzo, ma sfortunatamente io non vi potevo aderire per improrogabili obblighi lavorativi. Sentivo che avrei perso qualcosa, me lo diceva l'istinto, ma non potevo fare altrimenti se non prenotarmi sulla crociera del mese successivo, partendo da sola. Stessa barca ma diverso itinerario. Il primo faceva rotta nel Sud del Sudan, nel profondo Mar Rosso che si spinge fino al confine delle acque territoriali eritree, in un viaggio esplorativo nei siti d'immersione ancora poco battuti. Il mio viaggio, viceversa, si fermava un po' più a Nord e non andava oltre l'arcipelago di Suakin. Anche qui avrei avuto l'opportunità di immergermi in posti che non avevo mai visto prima, ragion per cui il compromesso di ripiego mi sembrò accettabile.
Mi restava comunque quell'impressione di atto mancato, quella fastidiosa sensazione di inquietudine che il nostro atavico, e troppo spesso disatteso, sesto senso ci procura quando vuole metterci in allarme. E' qualcosa che sfugge alla razionalità, è qualcosa che ha a che fare con una sorta di percezione extrasensoriale, retaggio del nostro non del tutto sopito istinto animale. E infatti...
Feci quello che non si dovrebbe mai fare, meno che mai il giorno prima della partenza. Telefonai al compagno di tante avventure appena rientrato dalla crociera esplorativa e chiesi cosa avevano visto. Facciamoci del male. Conoscendomi, il mio amico non sapeva come dirmelo, dirmi che cosa mi ero persa. M'invitò a sedere e sganciò la bomba, che ebbe la deflagrazione di un ordigno atomico. Aveva nuotato a distanza ravvicinata e per ore con una famiglia di una ventina di esemplari di globicefali. Ah, soccorso! Che dolore. Ero scioccata, prostrata, frustrata. Non li avevo mai visti, se non tanti anni prima dalla barca in Baja California, le balene pilota. Dopo aver rimuginato tutta la notte, partii per il Sudan con la sofferenza che si era trasformata in moto d'orgoglio e intento di riscatto. Avrei lottato all'ultimo sangue, avrei pregato, forzato, minacciato pur di farmi portare nel profondo Sud del Sudan. Ma bisognava invertire l'itinerario, convincere tutti gli ospiti della barca, corrompere il capitano e non so che altro. Ero decisa a provarci, pur sapendo che l'impresa sarebbe stata impossibile. Ma non è forse la vita stessa l'arte dell'impossibile?
Quella settimana di fine aprile il tempo si presentava caldo e mite. Niente vento, mare piatto senza correnti. Condizioni meteo marine perfette. Anche troppo. Al momento d'imbarcarci, conosco gli ospiti e gli equipaggi delle barche da crociera attraccate a Port Sudan, tutte in procinto di partire. Tutte con diversi itinerari. E tutte che favoleggiano delle meraviglie della nuova Mecca della subacquea, il profondo Sud. Lo stillicidio continua. C'è molta gente, la crisi egiziana ha indotto la maggior parte dei subacquei a riconvertirsi in Sudan, nella speranza di maggior sicurezza.
Sulla mia imbarcazione, a parte le due guide con cui avevo già fatto immersioni in altri posti, non conosco nessuno. C'è un nutrito gruppo di modenesi, molto affiatati tra loro, e altrettanti ospiti di diversa provenienza che sono venuti da soli. Io vengo inserita tra questi ultimi e accoppiata a una ragazza come compagna d'immersione. Ogni mattina ciascun gruppo andrà sott'acqua per primo a turno.
Ma siamo ancora attraccati in porto. Port Sudan si anima alla luce del crepuscolo. E' venerdì, il giorno sacro dell'Islam. Tutti sono vestiti a festa. Gli uomini nelle loro jalabiyah, lunghe vesti bianche immacolate, e le donne avvolte in abiti e foulard dai mille colori, quelle di origine africana, l'altra anima del Sudan. C'è musica, euforia, risate e allegria. Non si può scendere dalla barca adesso, ma ci rifaremo al ritorno con una visita al mercato.

Si può però socializzare adesso, distesi sul ponte a fare conoscenza con i compagni d'avventura e a definire le affinità elettive. Io studio la situazione. Vado a empatia. E a simpatia. E di quella non ne manca di sicuro. Identifico immediatamente i potenziali compagni di merenda, quelli audaci, i bricconi, i miei potenziali alleati. Li identifico tra i tanti. Ma forse sarebbe meglio dire che loro identificano me e mi stanano. Perché dopo le prime schermaglie che poco hanno a che fare con i consueti e desueti convenevoli di maniera, ci si appassiona immediatamente all'argomento principale: i globicefali. Mi lancio in un infervorato e accorato appello alla trasgressione, a sovvertire le tabelle di marcia, l'itinerario prestabilito, un appello a osare, a tentare la sorte e a irridere qualsiasi richiamo alla ragionevolezza. Colgo l'espressione terrorizzata dalla guida egiziana, che si defila immediatamente prima di essere coinvolta in una tale imprudenza, seguito a ruota dalla guida italiana, che mi fulmina con uno sguardo di rimbrotto e disapprovazione, scaricandosi così anche del più lieve sospetto di responsabilità nell'esprimere un qualsivoglia giudizio. Nel frattempo si è creato il gruppetto, quello che farnetica di globicefali e di squali vari, i seta e i martello che affollano a decine le acque dell'ultima frontiera del Mar Rosso, di orche e di balene e di chi più ne ha più ne metta. Si sogna sulla barca, si sogna ad occhi aperti. E così, disquisendo a ruota libera, è arrivato il momento della cena. Mi alzo dal mio posto a capotavola e lancio la mia idea: propongo di cambiare itinerario e partire seduta stante per il profondo Sud, Deep South. Silenzio glaciale. Poi mormorio, rumore, rimostranze esplicite. Non si può! L'itinerario è già fissato, non c'è abbastanza tempo, non c'è abbastanza carburante, il capitano non darà il consenso. Non si può. Non si può lasciare il certo per l'incerto, chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa quel che lascia e non sa quel che trova. Purtroppo temo che lo sapessimo, perché le testimonianze e i racconti di quelli che ci avevano preceduto, dicevano tutti la stessa cosa: branchi di squali martello, di squali seta e di globicefali a Sud, poco e niente più a Nord. Tant'è, la maggioranza vince, è la legge della democrazia. E neanche mi diverto a ricoprire il ruolo della Cassandra iettatrice, tanto meno ci tengo a forzare il destino. L'unica cosa da fare è concentrarsi e provare a smentire le sfavorevoli e vanagloriose profezie di future sciagure.
Era come se anche gli altri partecipanti cominciassero a dubitare, non so se fosse soltanto suggestione o si trattasse di quel famoso sesto senso di cui siamo dotati, sta di fatto che s'iniziò fin dalla prima immersione una ricerca accanita e spasmodica degli squali, in particolare dei branchi di martello che creano da soli la fama del Sudan dai tempi di Cousteau. Ciò si traduceva in minuti interminabili a grandi profondità, nella scarsa visibilità, in mezzo al blu, lontani dalla barriera, in attesa. Magari ce n'erano anche tanti e noi non li vedevano. Magari la temperatura dell'acqua era troppo alta. Magari le fasi della luna calante avevano determinato assenza totale di correnti. O magari non erano più i posti giusti, i mitici siti di Sha'ab Rumi e Sanganeb, ormai eccessivamente prosciugati dal turismo subacqueo di decenni, ormai mortalmente decimati dalla pesca selvaggia alle pinne di squalo. O forse era solo una questione di fortuna, forse non era la settimana giusta. Eppure niente riusciva a distogliermi dal pensiero che il Sudan fosse già stato sfruttato a sufficienza, prova ne era il paragone con la crociera di otto anni prima, e che i luoghi ancora incontaminati fossero i nuovi siti del Deep South, fino a quando sarebbero durati.
Il livello dell'umore ne risentiva. Basso. Anche il livello dell'azoto ne risentiva. Alto. A tal punto che in barca cominciarono le prime defezioni. Due casi di lieve MDD allarmarono i presenti. Ma cosa significavano tutte quelle cifre sul computer? 5 - 6 - 21. Chissà che vuol dire. Misi mano al manuale perché dopo tanto tempo dal corso e con il computer nuovo, non mi ricordavo niente. Avevo indugiato a quaranta metri un bel po' di tempo a guardare una delle rare sentinelle di squalo martello, nella speranza che avocasse a sé tutto il gruppo, dopo mi ero fermata a fotografare alcuni squali grigi che avevano fatto una fugace comparsa a ridosso del drop off, poi di nuovo altra tappa per immortalare i fiumi di ombrine dolcilabbra e di pesci pappagallo dal bernoccolo che pattugliavano il territorio. A quel punto guardo e vedo queste cifre. Indico alla mia compagna che ho solo cinque minuti di decompressione a sei metri.

Lei strabuzza gli occhi: impossibile! Tutti ne hanno dai quindici ai venti minuti di media. Qualcosa non quadra. Mi attengo al conto alla rovescia in zona sosta di sicurezza fino a quando il mio computer si azzera. Esco dall'acqua e umilmente chiedo lumi. La figuraccia è inevitabile, come quando, l'anno prima a Malpelo, avevo goffamente fatto la prova del pedagno attorcigliandomi indecorosamente alla cima e salendo inesorabilmente dietro al pallone semisgonfio nel maldestro tentativo di lanciarlo sulla superficie, ma dove avevo gli squali martello tutti i giorni a centinaia davanti alla faccia! Ilarità generale e rampogna, mi sarei aspettata una meritata messa al bando per la mia totale inettitudine tecnica. E invece si instaurò una solidarietà tanto inattesa quanto aggregante, visto che in ogni immersione si creava la stessa situazione, che non riguardava solo me, evidentemente e fatalmente tendente all'accumulo sconsiderato di bolle, ma che coinvolgeva anche le altre ragazze del gruppo. Oramai sott'acqua i nostri segnali non riguardavano più gli avvistamenti, per altro scarsi, ma si esprimevano in grandi manate che si aprivano e chiudevano, con tutte e dieci le dita alla volta, a indicare i venti trenta minuti di decompressione che ci beccavano in ogni immersione. Lascio immaginare i commenti di genere, che però, sorprendentemente, si traducevano non nei soliti stereotipati luoghi comuni sulle donne, ma in puro divertimento. Quel piccolo microcosmo femminile, quello scanzonato gineceo aveva risollevato le sorti e gli umori della barca, fino a quando qualcuno, con un colpo da maestro, lo aveva rinominato il gruppo delle Deco Sisters! A tal punto che uno degli ultimi giorni, quando già si pensa di essersi adattati ai parametri e agli algoritmi dei software, di essersi dati una regolata per il calcolo del consumo dell'aria in previsione delle tappe previste, mentre uno dei subacquei gioca a far attorcigliare una murena per indurla a uscire dalla tana, facendo esplodere il secondo stadio in una deflagrazione d'aria che aveva la potenza di un geyser, quando tutti sono già pronti a risalire sulla scaletta della barca per uscire, la guida ci vede titubanti e fa il classico segnale di ok. Non ottenendo risposta, chiede se abbiamo azzerato il computer e tutte insieme, all'unisono, cominciamo ad aprire e chiudere le mani due tre volte, convulsamente. La guida, che aveva finito l'aria, mi lancia la bombola di riserva e se ne va demoralizzata. Restiamo sul cappello del reef a pascolare come i dugonghi, in attesa del lento ed esasperante conto alla rovescia, non sapendo che sulla barca è allarme rosso. Non vedendoci risalire, prima pensano che abbiamo improvvisamente avuto un incontro fortuito, magari il fantomatico globicefalo, poi, con il passare dei minuti, l'ansia monta e, prima che la preoccupazione si trasformi in angoscia, riappariamo sul ponte come quattro sirene che riemergono dagli abissi. Una visione. Un manicomio. Una barca di pazzi.
Il bilancio degli avvistamenti, alla fine, decreta l'apparizione fortunata di una manta, chi l'ha vista vicina e chi lontana, fiumi di carangidi, spirali di barracuda, pesci napoleone e squali pinna bianca. Siti da cui ci si aspettava di più, come la tanto decantata Jumna, in quattro immersioni ha elargito poche soddisfazioni e qualche rarità, un pesce lima che nuotava storto, con la testa in giù. Alla fine, come in un tutte le crociere che si rispettino, la specialità arriva quando meno te lo aspetti. E non in immersione. Bensì in snorkeling.
A Sha'ab Ambar la superficie dell'acqua è improvvisamente scossa da un moto ondoso. Eppure il mare è piatto. Non sono onde, sono cetacei. Saranno globicefali? No, ma sono i loro parenti stretti. E allora via, in gommone, pinne e maschera e giù, di corsa. Un nutrito gruppo di delfini stenella irrompe dal blu, sale, si affianca, si distende, fronteggia gli apneisti. Stridii acuti fendono la barriera del suono. Le stenelle striate ridono, giocano, si scavalcano. Si corre a perdifiato, le si insegue imprimendo alle pinne tutta la spinta possibile. E loro vengono su a respirare, si immergono e riemergono, per mezz'ora, un'ora. Sono venute a salutare, a farsi ammirare. Sono venute a dare lustro a questo mare e a risollevarne le sorti.
Ritorno in Sudan. Ritorno in porto. Dal ponte della barca, mentre si riassetta l'attrezzatura, ciascun immerso nei propri pensieri, un tramestio rumoroso attrae l'attenzione. A pochi metri dalla banchina, ragazzi che corrono, inseguiti da poliziotti in assetto antisommossa. Scopriamo che provengono dalla Red Sea University di Port Sudan e che manifestano dopo l'uccisione di uno studente durante una dimostrazione pacifica contro le politiche economiche che hanno ridotto il popolo sudanese in miseria. Sedati i tafferugli e ristabilite le condizioni di sicurezza a tutela dei turisti, la sera si scende a prendere un caffè. Il lungomare è pieno di bancarelle, di bar e di gelaterie, tutti sono a spasso, uomini donne e famiglie intere. Alcuni si fermano, sono curiosi, instaurano una conversazione con gli stranieri in visita nella loro città. Sì, qui sembra cambiata Port Sudan dopo otto anni. E' più animata, più aperta. Sembra più libera. Effetto forse del tentativo di rendersi autonoma dal conflitto civile che martoria ancora il paese più grande dell'Africa dove, sia nel neo indipendente stato del Sud Sudan che nel Sudan stesso, feroci dittature violano i più elementari diritti umani nel silenzio delle grandi potenze che combattono una cruenta guerra petrolifera sulla pelle delle popolazioni inermi.
Non così cambiato appare il mercato il mattino dopo. Asini che trasportano i carretti e tuc-tuc che trasportano le persone, banchi di frutta e verdura, spezie e odori, ogni ben di dio è in bella mostra. E i mestieri antichi ancora si esercitano con artigiana perizia. I barbieri all'aperto, i sarti che creano vestiti su misura e rammendano con le vecchie macchine da cucire a manovella, nell'antica arte del riciclare e del riparare. Non è usanza contrattare qui al mercato. Se si insiste anche solo una volta di più, si viene cacciati in malo modo. La pretesa di tirare sul prezzo è vissuta come un'offesa, una totale mancanza di considerazione e di rispetto. D'altronde, per i prezzi che ci sono, è una vera usura accanirsi nel tentativo al ribasso. Parametrati al nostro costo della vita, i prezzi delle merci sono davvero inconsistenti. Al contrario, sono vitali per i sudanesi e per il loro costo della vita.
Il sesto senso ha avuto ragione. Quella percezione extrasensoriale, retaggio di quell'atavico istinto animale non ancora del tutto sopito, si è rivelata esatta. Questa crociera, così strana dal punto di vista subacqueo, ha però cementato l'unione di un gruppo di persone che hanno vissuto tutto con leggerezza e ironia, sdrammatizzando le delusioni e trasferendole su un piano immaginifico che si è tradotto in spirito e magia. Con tanto di corollario scaramantico fatto di rituali per propiziarsi la sorte. E la magia è venuta dagli uomini, alcuni uomini speciali, che, in un sorprendente rovesciamento di ruoli, hanno colto la vera essenza femminile e l'hanno trasformata in energia generatrice. Sono di diritto annoverati nel gruppo delle Deco Sisters. E la cerimonia d'investitura si celebra nella sala d'attesa dell'aeroporto internazionale dove due di loro, i fantastici padre e figlio, notano un uomo con il turbante. Mi si avvicinano e mi dicono a bassa voce: "Ma quello non ricorda qualcuno? E' Andy Luotto, l'arabo di "Quelli della notte"! Uviiii!"
Si chiude qui il mio ritorno in Sudan, tra Uviii e globicefali, martelli in faccia e martelli inesistenti, e tutta quella Deco che ha dato una tale euforia d'azoto da cancellare l'istinto di prendersela a morte per non aver seguito l'istinto.
Paola Ottaviano

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