Non avevo rimpianti. Sott'acqua avevo visto tutto, anzi, di più di tutto.
Il mondo sottomarino delle Raja Ampat aveva soddisfatto ogni mia aspettativa, anzi l'aveva superata, impreziosendo il mio carnet, già oltremodo ricco, di nuove creature mai incontrate e di vecchie creature insperate. Ma l'ultima sera, a cena, facendo il bilancio di quelle due settimane straordinarie, mi accorgo con orrore che ne mancava uno di avvistamento: il serpente di mare. Accidenti! Penso: vorrei tanto vederne uno, magari domani mattina, prima di partire. Mentre ero concentrata in questa riflessione, noto il ragazzo che serve a tavola retrocedere inorridito davanti alla porta della cucina. E' palesemente sconvolto. Ha le pupille dilatate e il sudore gli scende copioso dalle tempie. Accorriamo preoccupati. Sul pavimento, adagiato in un quadrato di sabbia della sala, striscia imperturbabile un serpente lungo più di un metro. L'avevo evocato. Magari se penso intensamente a un coccodrillo, appare anche lui! Se non fosse inquietante, ci sarebbe da ridere. Ma lì, in quel momento, non rideva nessuno. C'era chi metteva in salvo gli innumerevoli gatti che scorrazzavano come teppisti da un tavolo all'altro, saltando impudentemente e impunemente addosso alla gente che mangiava, chi si schiacciava contro il muro nella speranza di non essere attaccato. Sarà così pericoloso? Pare di sì. Viene fuori che è un serpente di mare, il serpente di mare che mancava all'appello, che è uscito dall'acqua ed è arrivato dalla spiaggia fino al ristorante, nonostante sia sopraelevato. E' venuto a salutarmi. Forse, ma soprattutto è in cerca di un posticino dove deporre le uova. Ed è velenoso. Si tenta di tutto per liberarsene, ma lui è dotato di quella speciale fisiologia snodata che gli permette di svicolare rapidamente, non ne vuole sapere di essere sfrattato. Alla fine, con un coraggio da leone, il direttore della resort lo prende con due dita, corre verso la riva e lo ributta in mare, da dove è venuto.
Scene memorabili, memorie indelebili qui alle Raja Ampat, il regno del Cuscus e del granchio del cocco, il più grande artropode del mondo. Vederne una manciata di esemplari infilati dentro delle retine e messi in vendita al mercatino di Waigeo, fa un po' tristezza. Ma, forse, fa ancora più tristezza sentire l'invettiva di qualche turista occidentale che si lancia in un atto d'accusa senz'appello contro i papuani, colpevoli di catturare dei poveri animali indifesi. Da che pulpito viene la predica, verrebbe da dire. Proprio da noi occidentali, che siamo riusciti a uccidere i mari, inquinare il pianeta e a non farci scrupolo di massacrare popolazioni native per depredarle di tutte le loro risorse che ci garantiscono il nostro inutile quanto insulso stile di vita. E' economia di sussistenza, invece, la motivazione materiale e culturale dei papuani che catturano pochi granchi del cocco, o degli abitanti di Lamalera che uccidono una balena l'anno per condividerne le carni con tutto il villaggio come sostentamento dell'intera comunità. Sarebbe meglio boicottare sistematicamente le multinazionali della grande distribuzione commerciale, il cui unico obiettivo è il profitto ottenuto con lo sfruttamento delle popolazioni povere del mondo, piuttosto che scandalizzarsi perché in Nuova Guinea i nativi che vivono nella foresta mangiano qualche Cuscus ma non fanno male a nessuno.
Non compro i granchi del cocco, ma prendo l’olio di cocco, unguento naturale di bellezza, etico ed ecocompatibile. M’inerpico sulla ripida gradinata che mi porta al belvedere di Wajag. Eccole le Raja Ampat dei dépliant turistici e dei tour operator. Il più famoso e strabiliante panorama del pianeta, fatto di lagune azzurre inframmezzate da panettoni di verde boschivo che si estendono a vista d’occhio sotto di me. E l’habitat si arricchisce di cascate zampillanti quando ci s’inoltra nel cuore della foresta attraverso canali di mangrovie dove le meduse upside-down pulsano gelatinose sul fondale limaccioso e impressionanti ragni gialli tessono le loro tele tra i rami. Anche a terra, tra cocchi e affini, la fauna endemica, quella australasiana definita dalla linea di Wallace, quella nascosta dalle selve impenetrabili nel cuore della Papua, esce allo scoperto. Un altro esemplare raro sbuca circospetto dal fogliame e percorre la passerella di legno di uno dei tanti pontili costruiti per le soste tra un’immersione e l’altra. Il monitor lizard, il varano del Pacifico occidentale, annusa i dintorni con la lingua appiccicosa. E’ stupendo, con la sua livrea maculata e la sua movenza preistorica.
Bestie più o meno antiche e dall’aspetto primitivo, a volte mostruoso, si aggirano indisturbate tra gli umani. E se è soltanto inquietante trovarsi un cervo volante piazzato sulla soglia del bungalow con l’intento di entrare a tradimento, è invece agghiacciante infilarsi la muta la mattina dopo e notare una strana protuberanza in fondo alla gamba avvolta dal neoprene. Con il coraggio della disperazione, piego l’orlo in fuori e lo stesso cervo volante della sera prima ruzzola a terra bello pacifico e per niente turbato dall’accaduto, mentre il mio sano senso di ripulsa per gli insetti, anche se magnifici e innocui, mi salva dal familiarizzare con loro e mi preserva dal razionalizzare un istinto innato di fobia incontrollata per queste terrifiche creature.
Qui, in questo angolo remoto del mondo, tutto è primordiale, tutto è primario. Basta girare per i mercati dei villaggi e soffermarsi davanti ai banchetti che offrono i frutti della terra e i pesci del mare, solo quelli che i pescatori possono prendere per la loro sopravvivenza nel parco marino protetto e interdetto alla pesca industriale. Questo mondo ancestrale è abitato da persone che non conoscono lo sfruttamento e che non agiscono per il profitto. Esse vivono di semplicità e di sentimento, tanto da offrire un passaggio in ojek, in moto, a due turiste occidentali rimaste a piedi di sera a Sorong e non voler niente in cambio, se non un sorriso e una stretta di mano.
E soprattutto avranno in cambio un senso profondo di gratitudine. Perché, nonostante tutto, loro sopravvivono con la dignità umana mai contrattata e mai svenduta, neanche per pochi spiccioli di rupie.
Al calar del sole, quando gli aironi e le aquile volteggiano a ridosso della battigia pattugliata da squaletti pinna nera in caccia, quando i cacatua e le anatre si avvicinano sculettando a bere dai recipienti d'acqua posti davanti ai bungalow per sciacquarsi i piedi prima di entrare, il capitano mette in moto la barca e percorre la superficie immota del mare per quel breve tratto che separa l'isola di Agusta da quella di fronte. Scendiamo su un lembo di sabbia immacolato. C'è un tronco d'albero che giace orizzontale sulla rena, a mezzo metro dalla riva. Indica il segnale, l'unico segnale telefonico della zona. Ci sediamo e ci mettiamo in comunicazione con il mondo, quello reale, quello disincantato, mentre lo sguardo si perde rapito sulla linea dell'orizzonte incantato di questo paradiso perduto. Paradiso, la definizione ricorre.
Qui, alle Raja Ampat, l’ultimo paradiso del pianeta.